Il counseling (in inglese americano: in inglese britannico la grafia è counselling) è un’attività di orientamento delle scelte e dei comportamenti della persona in ambiti specifici della sua esistenza, in modo da portare a pieno sviluppo le sue potenzialità. Si tratta di un approccio che è necessario distinguere, per il suo carattere insieme professionale e non specialistico, dalle diverse forme di psicoterapia, consulenza e assistenza.
CENNI STORICI
Agli inizi del XX secolo, il filantropo e riformatore sociale statunitense Frank Parsons (1854-1908) utilizzò per primo il termine counseling in un’accezione simile a quella oggi dominante. Dopo aver diretto un centro che offriva opportunità educative ai giovani e agli immigrati in cerca di lavoro, nel 1908 Parsons fondò il Bureau of Vocational Guidance (Ufficio di Consulenza Vocazionale). Nel Bureau si addestravano counselor per orientare persone in difficoltà nella scelta del lavoro giusto, corrispondente cioè alla propria “vocazione”: un’idea di chiara matrice protestante (l’attività lavorativa è l’espressione primaria del compito sociale a cui Dio ci chiama) e umanistica (nel lavoro fioriscono pienamente le potenzialità dell’individuo). Questa forma embrionale di counseling proseguì poi nell’assistenza sociale ai reduci di guerra che incontravano problemi sia materiali che psicologici allorché si sforzavano di reinserirsi nel mondo del lavoro.
Al di là dei programmi di orientamento scolastico e professionale organizzati e promossi da istituzioni filantropiche e sostenuti da una legge dello Stato sin dalla fine dell’800, che porteranno alla diffusione dei test attitudinali negli anni ’20 del ‘900 e alle ricerche di psicologia del lavoro negli anni ’50, il counseling come alternativa e complemento alla psicoterapia si sviluppa soprattutto nell’ambito della cosiddetta psicoterapia umanistica di Carl Rogers (1902-1987) e di Rollo May (1909-1994). Più o meno negli anni in cui la filosofia esistenzialistica europea riscopriva il pensiero di Soeren A. Kierkegaard (1813-1855) – al cui centro è l’essere umano come singolo con la sua angoscia di fronte alla scelta che dà senso ad un’esistenza altrimenti assurda – nasceva negli USA un esistenzialismo personalista volto soprattutto a un ripensamento della psicoanalisi e dei suoi metodi. I temi filosofici del dialogo (il faccia-a-faccia come apertura reciproca in cui ciascun individuo realizza se stesso e l’altro) e della libertà del singolo come essere irripetibile, entrano nella psicoterapia di Rogers e di May come esigenza di accompagnare la persona in difficoltà a prendere le decisioni giuste – quelle che portano la sua personalità al pieno sviluppo –  in modo autonomo e senza il condizionamento proprio del rapporto medico-paziente (o anche del rapporto maestro-allievo inteso in modo autoritario). Così nella psicologia della personalità (e non nella psicologia del profondo o psicoanalisi), al “medico” subentra un counselor, un professionista che dà a chi lo richiede gli strumenti per decidere liberamente all’interno di un rapporto fondato sull’empatia; e non c’è un “paziente”, un malato che va riportato alla salute “dall’alto”, ma un cliente, e soprattutto una persona, che deve orientare se stessa con l’aiuto di un dialogo formativo e terapeutico. Quindi la psicoterapia di Rogers è centrata sul cliente (client-centered), o meglio sulla persona (person-centered) come vero agente del cambiamento: un cambiamento che si manifesta in una più piena capacità di interazioni sociali ricche e soddisfacenti. Inoltre i principi del counseling trovarono un’atmosfera culturale favorevole nel periodo del Community Mental Health Act (1963), una legge della Nuova Frontiera kennedyana che prevedeva (come sarebbe accaduto nei decenni successivi nella maggioranza delle democrazie occidentali) la creazione di servizi psichiatrici territoriali come alternativa all’ospedalizzazione e all’internamento; nonostante le controversie ancor oggi vivaci sull’argomento, anche nella psicologia fu messa in crisi l’impostazione basata sul modello psichiatrico e medico e le idee di Rogers, May ed altri (sviluppo della personalità, centralità dei rapporti interpersonali e quindi crescita della relazionalità) offrivano un approccio inedito ad alcune forme di disagio non riconducibili alla categoria di “malattia” o di “disturbo psichico” e trattabili con miglior esito al di fuori del percorso psicoanalitico o psicoterapeutico classico.
In Italia le prime esperienze paragonabili a ciò che si andava delineando al di là dell’oceano (e poi in Gran Bretagna) sono le associazioni filantropiche dedite all’assistenza sociale (le ufficializzò un Regio Decreto del 1929), riformate nel secondo dopoguerra in modo da includere anche operatori di sesso maschile. Negli anni ’70 il clima culturale dell’antipsichiatria, e comunque l’esigenza diffusamente sentita di riconsiderare l’approccio terapeutico alla psiche, porta a sperimentare metodi chiaramente derivati dalla person-centered therapy e sempre più simili al counseling americano. Tuttavia solo vent’anni dopo il counselor diventa in Italia una figura professionale ben definita e le associazioni di counseling iniziano a richiedere un percorso di regolamentazione che non è ancora concluso: infatti nel 2000 il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) ha inserito la Società Italiana di Counseling (S.I.Co) tra le “associazioni rappresentative delle professioni non regolamentate”, ma dal 2006 è in discussione un DDL di riforma delle professioni intellettuali che è un tentativo di uscire dalla logica italiana degli ordini professionali (un retaggio dell’epoca fascista). Non è un caso che gli ordini regionali e diverse associazioni di categoria degli psicologi continuino a criticare il counseling in quanto costituirebbe un esercizio abusivo, e non supportato da adeguata formazione, della professione di psicologo.
SCUOLE DI FORMAZIONE, UNIVERSITA´ E CORSI DI AGGIORNAMENTO
È negli anni ’90 del ‘900 che il counseling diventa in Italia un’attività terapeutica professionalmente definita, anche se ancora non regolamentata: nel 2000 il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) cita due associazioni di counseling tra le “associazioni rappresentative delle professioni non regolamentate”. Nel 2006 è iniziato un complesso iter legislativo-normativo per il pieno riconoscimento della qualifica professionale di counselor. Nonostante le controversie sorte negli ambienti ufficiali della psicologia e della psicoterapia italiana – e non solo – intorno alla particolare natura del counseling, si moltiplicano i centri, i corsi e i professionisti di counseling proporzionalmente alla richiesta. Oggi il counselor ha una formazione teorico-pratica piuttosto ben definita: i corsi durano mediamente tre anni e prevedono lezioni sui principi e le tecniche del counseling, esercitazioni, training personale individuale o di gruppo e supervisione dell’attività iniziale; al loro termine viene rilasciato un attestato di frequenza se si tratta di scuole di formazione private, o un attestato di qualifica professionale se si tratta di agenzie formative accreditate dalle regioni.
Forniamo un link con un elenco di scuole accreditate dalla S.I.Co (Società Italiana di Counseling): http://www.sicoitalia.it/elenco_scuole.html
PRESENZA IN ITALIA ED EFFICACIA SULLA POPOLAZIONE
In Italia le associazioni professionali di categoria sono la AssoCounseling, il Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti, la Federazione delle Associazioni Italiane di Psicoterapia (Divisione di Counseling) e la Società Italiana di Counseling.
La richiesta di un supporto “terapeutico” come quello del counseling nasce sicuramente dall’esigenza di migliorare la propria vita relazionale e il proprio adattamento sociale senza avviare un percorso lungo e complesso come quello dell’analisi o comunque un rapporto psicoterapeutico in cui si miri a ristrutturare l’intera personalità del cliente. La crescita del counseling in Italia è un chiaro indizio dei benefici che se ne traggono, anche se il criterio della soddisfazione individuale non è da tutti riconosciuto come esauriente e scientificamente ben fondato.
I contesti in cui si esercitano l’orientamento e il sostegno sono i più vari: si ha un counseling individuale (o di coppia, familiare, di gruppo), un counseling scolastico, un counseling aziendale, un counseling sessuologico (per la coppia e le tendenze sessuali o per le violenze e gli abusi sessuali), un counseling per malati terminali e così via. Ovviamente il counseling psicologico (che implica competenze relativamente a diagnosi, orientamento terapeutico, sostegno, riabilitazione etc.) e quello medico (in cui è necessaria una preparazione professionale per effettuare diagnosi, prescrivere farmaci ed esami etc.) dovranno essere svolti da un counselor che sia rispettivamente anche psicologo e medico.
TRATTATO DESCRITTIVO
L’etimologia corretta del termine counseling potrebbe risultare ingannevole: deriva infatti dal verbo to counsel, che indica attività informali come il consiglio o altamente specialistiche come la consulenza. In latino consulere significa “chiedere un consiglio per prendere una decisione”, “prendersi cura di”, “venire in aiuto”: tuttavia mentre il consiglio viene offerto in un rapporto tra pari, sebbene eventualmente da una posizione di maggiore autorità, e consiste nel suggerire, con la franchezza propria dell’amicizia, una data scelta; il counseling avviene in un rapporto da professionista (il counselor) a cliente e consiste nell’elaborare una “strategia” che rende possibili le scelte più appropriate per la situazione del richiedente. La consulenza, invece, è un’attività professionale – come il counseling – in cui però uno specialista fornisce al cliente un parere competente su una questione tecnica.
Il counseling è una forma di assistenza e sostegno in cui si combinano creativamente istanze tipiche della cultura contemporanea nordamericana, col suo pragmatismo e il suo individualismo, e un indirizzo particolare della psicoterapia novecentesca noto come psicoterapia centrata sulla persona (person-centered psychotherapy).
Il termine viene usato per la prima volta in un senso affine a quello attuale dal riformatore sociale statunitense Frank Parsons (1854-1908), noto per il suo lavoro sulla vocational guidance, ovvero l’orientamento consapevole della persona ad una carriera lavorativa corrispondente alla propria vocazione, alle proprie innate potenzialità: ed è appunto nel mondo protestante (soprattutto nordamericano) che il lavoro viene sentito come il compito morale-religioso più alto, in cui si esprime la vocazione divina del singolo all’interno della comunità.
Ma è con psicologi come Carl Rogers (1902-1987) e Rollo May (1909-1994) che al termine corrispondono una teoria e una pratica coerenti e articolate. Seppur in modo diverso, entrambi erano interessati ad un approccio umanistico ed esistenzialistico: ovvero volto a rispettare l’autonomia e la libertà dell’individuo umano accompagnandolo alla piena fioritura delle sue potenzialità. A questo fine la terapia dev’essere “non-direttiva” (non-directive) e “centrata sulla persona”: il professionista non deve usare la sua autorità per indirizzare ad un certo obiettivo la scelta del cliente (in questo senso la psicoterapia “classica” sarebbe ancora troppo legata al paradigma del rapporto medico-paziente), ma creare il contesto adatto perché la scelta si produca liberamente, come atto responsabile della personalità del cliente. Le condizioni per questa fioritura della personalità sono: un concreto rapporto io-tu tra il terapeuta-counselor e il cliente, in cui il cliente possa aprirsi (essere vulnerabile) all’ansia e percepire l’autenticità di risposta del terapeuta, che deve avere uno sguardo incondizionatamente positivo sull’altro e provare-manifestare una genuina empatia nei suoi confronti.
Nel corso degli anni l’attività di counseling ha precisato maggiormente le sue differenze dalla psicoterapia in senso stretto. Certamente obiettivo del counselor è aiutare il cliente a superare i suoi problemi, ovvero gli ostacoli ad uno sviluppo armonico della sua irripetibile personalità: ma il superamento dev’essere compiuto dal cliente stesso in modo del tutto autonomo; il counselor deve limitarsi a guidarlo-accompagnarlo, indicandogli le possibili scelte che sono aperte davanti a lui e aiutandolo a riflettere con cura sugli ostacoli interiori, in modo da far emergere spontaneamente un cambiamento di prospettiva e quindi un potenziale nuovo indirizzo della volontà e dell’azione. Inoltre la psicoterapia intende portare in luce un dinamismo intrapsichico che è all’origine di un disturbo della personalità, mentre il rapporto di counseling, pur non essendo – come si è visto – una banale tecnica di problem solving (soluzione di problemi), si definisce su obiettivi più specifici legati alle dinamiche interpersonali (orientamento vocazionale nel lavoro, scelte matrimoniali etc.) e su tempi più brevi.
In sintesi, oggi la figura del counselor è caratterizzata dalla capacità di creare le condizioni per un’autonomia decisionale, tramite l’esame di fattori consci (interessi, aspirazioni economiche, sociali e familiari etc.), ma anche dei moventi profondi e inconsci che sono alla base dell’adattamento della persona alla società (e dei disagi maladattativi connessi) e in generale dell’espressione della personalità dell’individuo nel mondo: “scopo del counseling è quello di consentire all’individuo una visione realistica di sé e dell’ambiente sociale in cui si trova ad operare, in modo da poter meglio affrontare le scelte relative alla professione, al matrimonio, alla gestione dei rapporti interpersonali, con la riduzione al minimo della conflittualità dovuta a fattori soggettivi” (U. Galimberti).