L’ikebana (in giapponese: “fiori viventi”; un’altra denominazione classica è kado, “via dei fiori”) è l’arte tradizionale di disporre piante e fiori recisi in vasi pieni d’acqua in modo da mantenerli in vita. Si tratta di una disciplina artistico-spirituale profondamente radicata nei principi e nell’atmosfera culturale del buddhismo giapponese, in particolare dello Zen.
CENNI STORICI
La sensibilità giapponese, impregnata di animismo (la percezione che ogni cosa è animata da una presenza sottile e “divina”) shintoista e di spiritualità buddhista, vede da sempre nei rami fioriti una delle realtà simboliche fondamentali: basta contemplare la pittura e leggere la letteratura del Giappone per rendersene conto. Secondo la tradizione, i primi monaci buddhisti, quelli indiani, imitavano l’amore del Buddha per ogni forma di vita ponendo in vasi pieni d’acqua rami spezzati dal vento o disidratati dal sole. Nei loro templi poi cominciarono a comporre, davanti alle statue e alle immagini sacre, dei giardini in miniatura con un ramo centrale più alto a mo’ di asse, ai suoi due lati una serie di rami più bassi e infine un gruppo di arbusti di sostegno e di complemento: in giapponese questo genere di paesaggio artificiale, a volte donato in offerta anche ai defunti, venne chiamato sunamono-rikka. Ma quando il buddhismo cinese fu introdotto in Giappone, la composizione originaria fu semplificata e resa più elegante, secondo il carattere nazionale cinese, più pragmatico, e quello giapponese, dotato di un forte senso dell’estetica e del rito. L’elaborazione del buddhismo Zen portò allo sviluppo di numerosi rituali di origine monastica ma divenuti poi linfa e nutrimento della vita e della psicologia giapponese: tra questi ricordiamo l’offerta dell’incenso e la cerimonia del tè, nel cui contesto si raffinò l’arte della disposizione dei fiori o ikebana. Parallelamente l’usanza religiosa di comporre giardini in miniatura raggiunse la perfezione nella particolare arte del giardino giapponese (la cui forma più nota è il karesansui o “paesaggio arido, roccioso”).
Nel XIV-XVI secolo questa cultura era al suo culmine. Le stanze del tè imitavano la spoglia e modesta bellezza dei monasteri Zen, e nacque l’uso di porre nel tokonoma (un’ampia nicchia murale rialzata), oltre a rotoli con storie classiche illustrate e oggetti preziosi, anche bonsai e composizioni di ikebana. Inizialmente si trattava di un semplice ramo disposto in un contenitore altrettanto umile – una zucca, un pezzo di bambù o di corteccia d’albero – e doveva dare un’impressione di naturalezza, di spontaneità quasi casuale, che era però effetto di regole precise e molto sofisticate: è appunto la tecnica poi detta nageire, letteralmente “mettere dentro”, “lasciar cadere”. Oggi le particolari composizioni per la sala da tè vengono chiamate cha-bana, “fiori per il tè”. In seguito l’aspetto delle opere divenne più ricco, fino ad arrivare al cosiddetto periodo classico o aureo dell’ikebana (XVI-XVII secolo), in cui quest’arte – questa disciplina meditativa – divenne una passione che attraversava molti strati sociali: in particolare entrò nel novero degli esercizi coltivati dai guerrieri feudali, i samurai, per arricchire la sensibilità e la concentrazione.
La scuola di ikebana più antica è la Ikenobo, la cui sede è a Kyoto, adiacente al tempio Rokkakudo. Ricordiamo brevemente i generi in essa coltivati: il rikka o “fiori dritti”, il più noto, portato al massimo sviluppo nel XVII secolo da Ikenobo Senko II; lo shoko, elaborato nel XIX secolo da Senjo Ikenobo a partire da una forma più semplice ed elementare: e il più moderno, il Jiyu-ka o “stile libero”.
La scuola Ohara, fondata da Unshin Ohara (1861-1916), si dedicò soprattutto allo sviluppo del moribana (letteralmente “fiori ammassati”), ovvero la composizione di paesaggi naturali in miniatura.
La scuola Sogetsu fu fondata nel 1927 da Sofu Teshigahara, detto “il Picasso dell’ikebana” o lo “scultore dell’effimero”: grande modernizzatore della tradizione, la sua libera e spregiudica rilettura dei metodi classici non tradisce l’ideale originario di semplicità, armonia ed eleganza.
La diffusione dell’ikebana in Occidente è stata il frutto del clima generale destato dalla scoperta della cultura giapponese: già iniziata nel tardo XIX secolo, soprattutto come suggestione operante nelle arti figurative, si è poi lentamente approfondita nel corso del XX, in particolare a partire dal periodo fra le due guerre, con la divulgazione dello Zen ad opera di D. T. Suzuki (1870-1966) nei suoi ponderosi Saggi sul buddhismo Zen (1927-1934) e poi di Eugen Herrigel (1884-1955), autore del celebre Lo Zen e il tiro con l’arco (1948). Nel 1958 sua moglie Gusty pubblicò Lo Zen e l’arte di disporre i fiori, saggio agile e godibile sul significato e la pratica dell’ikebana. Da allora i gruppi dediti all’antica disciplina si sono prevedibilmente moltiplicati in tutto il mondo. Psicoterapeuti affascinati dall’Oriente e in particolare dall’irripetibile impasto giapponese, come Karlfried Graf Dürckheim (1896-1988), hanno praticato e consigliato le diverse arti meditative, tra cui appunto l’ikebana, come terapia integrale di corpo, psiche e spirito.
Scuole di formazione, università e corsi di aggiornamento
Artikebana di Maria Domenica Castrì (scuola Sogetsu), Via Latina, 42 – 81055 – S. Maria Capua Vetere (CE): tel. 340_4727276: e-mail artikebana@artikebana.com
Ranson Lina Alicino (scuola Sogetsu), www.sogetsu.it, ikebana@sogetsu.it, 06-50795164
Centro di cultura giapponese, via Lovanio, 8 – Milano: tel. 02.89692171/ 348_9200948 fax 02.89692162: e-mail centrodiculturagiapponese@gmail.com
La via dei fiori (di Marisa Saso) – telefonare a 02-2613575 o inviare un’e-mail a marisa@laviadeifiori.com
VersOriente, Vicolo Cellini 17 – 00186 – Roma: tel. 06.68.93.506: Email: info@versoriente.net
Presenza in Italia ed efficacia sulla popolazione
In Italia il merito della prima diffusione dell’ikebana, negli anni ’60 del ’900, spetta a Jenny Banti Pereira, che fonda il Chapter Ohara Italia (legato alla scuola Ohara), e ad Evi Zamperini Pucci, che dopo aver seguito il corso di Florence Mergé all’IsMEO (Istituto per il Medio e l’Estremo Oriente, oggi IsIAO, Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) si dedica alla stesura di manuali introduttivi e di altri testi che introducono finalmente questa venerabile disciplina nel nostro Paese.
Oggi le associazioni e i gruppi che praticano e insegnano l’ikebana sono affermati e numerosi, e la loro proposta è varia come quella delle diverse scuole giapponesi. Ovviamente, poiché non si tratta di una terapia medica in senso stretto, gli strumenti per misurarne l’efficacia non sono quelli del metodo scientifico “ortodosso” né quelli clinico-statistici in uso in Occidente. Ma è indubbio che le molte persone dedite a questo antico esercizio artistico-spirituale ne traggano diversi benefici, sicché è possibile parlarne come di una terapia a tutti gli effetti, soprattutto quando è integrato in un più ampio quadro di cure volto a risvegliare non solo la creatività, la percezione estetica e il senso di bellezza e profondità del vissuto psichico del paziente, ma anche ad aprirlo ad una visione del mondo totale e ricca di senso, quindi soddisfacente sul piano fisico, psichico e spirituale.
TRATTATO DESCRITTIVO
L’ikebana è un’arte in cui si esprime alla perfezione il genio tipico della cultura giapponese. Questa civiltà dalle caratteristiche uniche è nata soprattutto dalla sintesi tra l’antica religione shintoista, in cui il mondo viene percepito come un’interrelazione costante e delicata di sottili presenze divine, e il buddhismo cinese in particolare nella sua forma ch’an (lo Zen giapponese). Lo Zen è prima di ogni altra cosa una forma di vita, una meditazione vivente che sperimenta l’universo (secondo le parole di una scrittura buddhista classica, il Sutra della Perfezione della Saggezza, Prajña-paramita-sutra) come un ritmo di Vuoto e Forma: l’Assoluto si manifesta nei fenomeni del mondo, i fenomeni del mondo sono “vuoti”, cioè sono l’Assoluto stesso. Tale percezione delle cose ha ispirato numerose forme d’“arte”, che sono in realtà pratiche meditative in cui l’illuminazione spirituale si concretizza in un rapporto armonioso con ogni fenomeno e con l’universo nel suo insieme: sono quindi esercizi di “estetica” intesa come relazione sensibile con le cose (dal greco aisthesis, “percezione”) ed esercizi religiosi al tempo stesso. Tra questi ricordiamo: la calligrafia, la pittura, la poesia, la cerimonia del tè e appunto l’ikebana; ma anche molte delle cosiddette “arti marziali” come la scherma (kendo) e il tiro con l’arco (kyudo).
Nella sua forma basilare, l’ikebana consiste nello scegliere tre rami fioriti – uno più lungo, uno più corto e il terzo di lunghezza intermedia – e di disporli in un vaso pieno d’acqua con l’aiuto di una forcella di legno tenero, il kubari, fissata a circa due centimetri dal bordo del vaso. Il ramo più lungo e slanciato simboleggia il Cielo (shin), il mondo divino e invisibile che tutto avvolge e sorregge: il ramo più corto e tozzo simboleggia la Terra (gyo), il mondo dei fenomeni concreti e visibili, che appaiono e scompaiono: il ramo intermedio, che va disposto fra gli altri due, rappresenta l’Uomo (so), il principio che congiunge armoniosamente l’alto e il basso, il Vuoto e la Forma, in uno scambio continuo di energie e corrispondenze. La triade dei rami deve formare un triangolo che può essere orientato a destra o a sinistra a seconda della disposizione del ramo-Terra. Questo schema elementare si presta ad una gamma potenzialmente illimitata di variazioni, tutte però fondate sul principio che l’Uomo, l’artista-meditante, si pone delicatamente al centro delle energie cosmiche, del Vuoto e della Forma, come testimone distaccato: il suo distacco però consiste appunto nell’agire sulla natura (i fiori, le piante) attraverso l’arte (le tecniche dell’ikebana) in modo da manifestare l’armonia originaria fra Cielo e Terra; è il principio taoista del wu-wei, l’“agire non-agendo”. Arte e natura, uomo e mondo sono non-separati.
Chi pratica l’ikebana deve rinunciare al proprio io separato e unire il proprio cuore al “cuore dei fiori” (hana-no-kokoro). Deve preparare e disporre i fiori secondo i metodi tramandati, e la sua mano e il suo pensiero devono perdere ogni intenzionalità e premeditazione, come in tutte le arti ispirate allo Zen. La sua composizione floreale sarà un equilibrio semplicissimo, ma ottenuto con grande sapienza tecnica, tra il “pieno” dei rami, con le loro forme flessuose, e i “vuoti” che li circondano. Ora la composizione prende vita: il vaso viene posto in una nicchia del muro (il tokonoma), di solito nella Stanza del Tè. Infatti è nel contesto della Cerimonia del Tè (cha no yu) che le opere di ikebana acquistano il loro significato più tipico, anche se sono presenti in molti momenti della vita giapponese, religiosa o meno. Il rito del tè esalta tutte le caratteristiche dello spirito Zen: eleganza semplice e spoglia, sobrietà, silenzio e condivisione con gli ospiti. Tutto, dalle stoviglie e ai fiori, nella stanza del è shibui: cioè poco appariscente, umile, ma ricco di bellezza e di stile.
Le tecniche di composizione si dividono in tre gruppi generali: il seika, il più importante, che coincide con l’ikebana in senso proprio; il nageire, più libero; il moribana o paesaggio. Il seika può essere “formale” o “classico”: ha una struttura più severa e stilizzata e viene usato soprattutto nei riti religiosi. Ci sono poi il seika “semi-formale” e quello “informale”, più adatti all’uso privato e meno legati a schemi rigidi e cerimoniali. Ogni seika può avere poi varie forme a seconda del ramo che si vuol esaltare (e quindi del tipo di meditazione che si vuol fare e suscitare): quello del Cielo, della Terra o dell’Uomo. Inoltre ai rami principali si possono aggiungere diversi sostegni, rami ausiliari ed elementi secondari. Si hanno così composizioni più adatte alla primavera, altre più adatte all’estate etc.; oppure saranno le circostanze a suggerire lo stile più appropriato. Nel nageire la varietà compositiva è ancora più ricca, e si va dai vasi sospesi, con i rami che ricadono in basso, al semplice ramoscello fiorito per ornare la modestia della Cerimonia del Tè. Il moribana invece è un paesaggio in miniatura realizzato disponendo rami, canne e altri elementi vegetali in recipienti bassi pieni di sabbia o di terra. Lo schema base del ternario viene qui applicato in forma più libera, creando un albero in miniatura sullo sfondo, cespugli o un boschetto in miniatura in secondo piano e in primo piano vegetazione bassa come muschio ed erba. Le pietre che completano il moribana – la più grande rappresenta il principio maschile o yang, quella più piccola il femminile o yin – si inseriscono così in un paesaggio al tempo stesso naturale e artificiale, concreto e simbolico: miniatura dell’universo nei suoi delicati e dinamici rapporti reciproci, in cui l’artista ha proiettato la propria psiche perdendola e ritrovandola nell’armonia spontanea dell’essere.
Pur non essendo una disciplina medico-scientifica in senso stretto, e nemmeno solo un’“arte” nel senso occidentale del termine, l’ikebana, proprio per la sua natura di meditazione in atto, ha un indubbio valore terapeutico nel senso più ampio e nobile del termine. Chi la pratica, infatti, impara sperimentalmente un rispetto per la natura non astratto e moralistico, ma di natura religiosa e di grande rilievo psicologico: inoltre, come con altri esercizi estetico-meditativi orientali (preparazione di un mandala, pittura e poesia etc.), si ha una “ricreazione” non solo nel senso del piacere e dello svago, ma soprattutto nel senso che è come se il meditante avesse ri-creato il mondo annullandosi in esso. Un’esperienza spirituale e psicologica (estetico-culturale), un rituale che non può mancare di effetti benefici e quindi terapeutici sulla totalità della persona che la compie.