Pensate al vostro dolce preferito, il primo in cima alla lista dei vostri desideri: che sia ripieno di crema, una morbida crostata, o un gelato al cioccolato extrafondente, dietro le quinte della sua laboriosa preparazione primeggia uno splendido, bianco, colmo bicchiere di latte. Senza di lui, niente dolce saporito. Ecco un alimento che ci accompagna praticamente dalla culla fino alla più tarda età: il latte, e i suoi sterminati derivati, senza contare appunto i suoi mille usi da parte dell’arte culinaria. (E chi non ha un nonno goloso di gelati scagli la prima pietra!). Oppure, un altro esempio. Quando andate a trovare la vostra mamma, magari siete fortunati e fate solo pochi isolati, magari percorrete centinaia di kilometri per rivederla, ma di una cosa siete certi: quando servirà la cena di benvenuto, non vi farà mancare una gigantesca, fumante e ben saporita bistecca, cotta al punto esatto che voi adorate e che lei ben conosce. Infine, un ultimo caso. Quando entrate in una pescheria, rimanete sicuramente alcuni minuti in contemplazione della varietà di specie ittiche presenti sul bancone refrigerato: vi aggirate avanti e indietro indecisi su cosa acquistare per il pranzo. Se siete consumatori scrupolosi, andate oltre i vostri desideri e leggete attentamente i cartellini obbligatori che specificano oltre al prezzo la provenienza delle singole specie. Ebbene, su queste piccole lavagnette oggigiorno troverete facilmente segnalata anche la distinzione tra “pescato in mare” e “allevato”. I puristi potrebbero storcere il naso: “Un allevamento di pesci? No, grazie!”. Eppure ormai soltanto un palato raffinato ed allenato è in grado di discriminare tra le due tipologie di pesce: se cucinate e servite nella medesima maniera sono quasi indistinguibili. Ed è proprio il “quasi” ad aprire l’intera problematica che qui ci interessa.

Il latte, la carne, il pesce: andando al di là delle prime suggestioni che questi nomi possono evocare, oggi nessuno si sogna più di associarli alle mani sapienti del contadino che mungono, ai verdi pascoli dove le mandrie crescono tranquille, o alle flottiglie di pesci che sbattono le pinne in acque cristalline in attesa delle docili reti umane. Questi tre cibi base della nostra alimentazione sono il frutto di una realtà assai complessa riassumibile in una sola parola: zootecnia. Una parola inquietante che suscita, assieme ai suoi corollari (ibridazione, fecondazione artificiale, meticciamento, miglioramento genetico, ecc.), scenari fantascientifici: l’artificiale contro il naturale. Considerando che l’alimentazione, come si è visto negli esempi, rappresenta uno degli sbocchi principali della zootecnia, influenzando quindi direttamente la nostra salute, è opportuno fare un po’ di chiarezza sull’argomento.
Stando alla sua definizione, la zootecnia è la scienza applicata alla tecnica della riproduzione, dell’allevamento e della utilizzazione degli animali domestici o tenuti in cattività. È suddivisa in due branche: zootecnia generale (la quale tratta i problemi e i metodi di miglioramento, attraverso studi di genetica e di scienza della nutrizione) e zootecnia speciale (che si occupa dei presupposti scientifici e delle tecniche dell’allevamento delle diverse specie animali). La zootecnia applica quindi la biologia all’allevamento degli animali con lo scopo di migliorarne il fenotipo, ossia l’insieme dei caratteri che l´individuo presenta, come risulta tanto dalla costituzione ereditaria (genotipo) quanto dalla costituzione acquisita (paratipo) a seguito dell´azione dei fattori esterni ambientali  (condizioni climatiche, alimentazione, condizioni di allevamento).
La pratica dell’uomo per ottenere il controllo sul bestiame tramite domesticazione e allevamento è storia piuttosto recente, risalendo a circa 4000 anni fa: si passò dalle attività di pastorizia al sistema misto agro-pastorale per finire coi ricoveri fissi delle fattorie. Mentre lo studio delle tecniche della produzione animale cominciò in modo sistematico e scientifico soltanto nel ‘900, a seguito dei profondi mutamenti avvenuti a partire dall’Ottocento. Tre grandi rivoluzioni segnarono per sempre il destino dell’ambiente agricolo, almeno nei paesi sviluppati: la rivoluzione industriale, col conseguente impiego massiccio di macchine agricole; la rivoluzione nelle tecniche colturali e il ricorso sempre più frequente all’allevamento intensivo; la rivoluzione nelle vie di comunicazione e nei mezzi di trasporto, tra i quali la ferrovia assurge a simbolo di un’epoca intera. Queste tre rivoluzioni contribuirono all’aumento demografico, il quale a sua volta stimolò e provocò le innovazioni della zootecnia: a lei ci si rivolse nel corso del Novecento per fornire non soltanto le conoscenze scientifiche ma anche le tecniche necessarie al fine di ottenere dagli animali allevati il massimo rendimento. Le si chiese di garantire allo stesso tempo sia la qualità che la quantità delle produzioni. Ed ecco a poco a poco generalizzarsi l’impiego di mangimi, integratori, ecc. per rendere la dieta dell’animale più idonea ad un’alta produttività. Ed ecco l’adozione di nuovi criteri costruttivi anche nei locali dove vengono allevati gli animali. Vincente è stato l’allevamento di tipo industriale intensivo (senza terra); operazioni quali la distribuzione dell’alimento o la pulizia dei locali sono state meccanizzate; infine ha fatto la sua comparsa la mungitura meccanica. In alcuni ambiti la meccanizzazione ha raggiunto punte straordinarie: è il caso degli allevamenti di bovini dove un alimentatore automatico riconosce il singolo capo e gli eroga una razione “personalizzata”. Innovazioni e progressi, che non sono stati senza conseguenze: le tecniche di allevamento si sono viste costrette alla necessità di contenere le tecnopatie, ovvero i disturbi e le malattie causati da errori alimentari e ad un eccessivo sfruttamento degli animali (disturbi respiratori, ulcere gastriche dei suini, mastiti delle bovine lattifere). Col passare del tempo, è sembrato che la qualità soccombesse sotto l’inderogabile imperativo della quantità e della produttività. E il possibile matrimonio tra l’ingegneria genetica e le zootecnie apre scenari futuri ancora difficilmente immaginabili.
Inevitabile quindi che contro questa zootecnia “dura”, la quale mira a produzioni sempre più spinte, si siano alzate a più riprese accuse legate alla variazione organolettica dei prodotti ottenuti e al rischio sanitario per il consumatore a seguito dell’impiego di sostanze vietate (sostanze ormonali, ecc.). Sotto la pressione di queste critiche è aumentata l’attenzione dei consumatori alla “naturalità” e alla qualità dei prodotti alimentari. In gioco c’è, come si è visto, una fetta rilevante dell’alimentazione umana: ciò che arriva sulle nostre tavole ed influenza direttamente la nostra salute ha molteplici punti di contatto con le zootecnie. A livello mondiale, secondo il rapporto 2010 della FAO, la zootecnia fornisce il 15 per cento del totale di energia alimentare ed il 25 per cento delle proteine alimentari.  I prodotti animali forniscono micronutrienti essenziali, non facilmente ottenibili da altri prodotti vegetali. Si è fatta strada quindi l’esigenza di un modello alternativo all’allevamento intensivo che aveva trionfato a partire dal secondo dopo guerra nei Paesi economicamente “sviluppati”: a questo proposito si parla di zootecnia “biologica”. E qui, dopo l’alimentazione, viene coinvolto un secondo punto decisivo nel quale è in gioco la salute e il benessere dell’uomo: il problema si allarga dalla tavola all’ambiente, dalla salute individuale alla salute collettiva. La zootecnia è un’attività che influisce in modo rilevante sull’uso delle risorse biotiche e abiotiche, sul territorio e sulla conservazione della biodiversità. In particolare la zootecnia impatta negativamente sull’ambiente in vari comparti: sull’acqua (a causa dei carichi di azoto e fosforo provenienti dal letame, senza contare il prelievo di questa preziosa risorsa e la qualità del suo rilascio), sull’aria (a causa delle emissioni zootecniche e quelle da consumi energetici), sul suolo (a causa ancora una volta dei carichi di azoto e fosforo provenienti da letame). La pressione sull’ambiente da parte della zootecnia come si vede è essenzialmente dovuta al letame prodotto e alle emissioni in atmosfera provenienti dai processi digestivi degli animali (metano, protossido d’azoto, ammoniaca). Da questo ordine di problematiche nasce l’esigenza di ricercare sistemi di produzione e di allevamento ecosostenibili tanto per il consumatore singolo quanto per l’ambiente naturale.
L’incremento dei rischi associati alla globalizzazione, e quindi alla diffusione dell’allevamento intensivo, può far volgere l’attenzione dal principio di breve termine della massimizzazione dei profitti, a quello di lungo termine della creazione di sistemi produttivi ecocompatibili. Tale considerazione trova appunto riscontro nei principi ispiratori dell’allevamento biologico. Si mira alla creazione di un sistema produttivo circolare incentrato sulle complementarità tra terra-vegetale, vegetale-animale e animale-terra. Infatti, nel caso della zootecnia, uno dei principi fondanti è l’allevamento come attività di “produzione [necessariamente] legata alla terra” (All. B, Regolamento CEE N. 2092/91). Il rispetto di questo principio viene valutato attraverso tre criteri:
  1. Il rapporto tra Unita di Bestiame Adulto (UBA) e la Superficie Agricola Utilizzata (SAU);
  2. L’utilizzo di mangimi prodotti all’interno dell’unita produttiva (almeno il 35% della sostanza secca della razione deve essere ottenuta dalla SAU aziendale, o almeno da aree attigue nel comprensorio);
  3. Un’area di pascolo proporzionata al numero di capi.

Tutto ciò può creare un nuovo tipo di sviluppo che implica un differente modo di produzione, un nuovo rapporto tra produttore e consumatore (incentrato sulla rintracciabilità e trasparenza garantita su tutto il ciclo produttivo: dalla produzione, alla preparazione fino al trasporto e alla commercializzazione), la valorizzazione e conservazione delle tipicità (naturali, storiche, sociali ecc.) del territorio.

Bastano alcune cifre per rendersi conto che l’equilibrio tra le esigenze della quantità e il ripristino di condizioni qualitative che puntano alla salute e al benessere è ancora piuttosto precario. Secondo il rapporto FAO 2010, l’aumento dei redditi, l’incremento demografico e l’urbanizzazione sono le ragioni trainanti dell’aumento della domanda di prodotti animali nei paesi in via di sviluppo. Le proiezioni FAO indicano che per soddisfarla, la produzione mondiale annua di carne crescerà passando dagli attuali 228 milioni di tonnellate a 463 milioni per il 2050, con la popolazione bovina che si stima aumenterà dagli attuali 1,5 miliardi di capi a 2,6 miliardi e quella ovina e caprina da 1,7 miliardi a 2,7 miliardi di capi. Si capisce bene che nel futuro la battaglia per la salute e l’ambiente dovrà affrontare nuove e decisive sfide.
Si può concludere ricordando come sia altrettanto sentita dall’intero movimento biologico l’esigenza di tecniche che ripristino il “benessere” degli animali in produzione. E qui torna in mente l’apologo che lo scrittore inglese George Orwell sviluppò nel romanzo “La fattoria degli animali” (1945). Uno dei significati del libro, al di là degli intenti politici, potrebbe essere proprio questo: trattando male gli animali, gli animali stessi finiranno per ribellarsi alle angherie umane.