Tutto incominciò con una saponetta. Perché la sporcizia c’era sempre stata. Ma lei no, lei era l’ultima novità arrivata sulla scena degli umani artefatti. Là, in un punto strategico del vestito era spuntata l’ennesima macchia tenace. E le mani ancora una volta presentavano il risultato disgustoso di una giornata di duro lavoro. Per non parlare del fatto che lungo il braccio sinistro lo squarcio della mattina continuava ad eruttare sangue di un colorito sospetto. Ed ecco avvenire il miracolo: una passata decisa con il magico blocco scivoloso, ed almeno la sporcizia superficiale scompariva; una strofinata di sapone sulla ferita procurava bruciore, ma almeno tornava ad apparire il consueto tono di rosso. Una semplice, universale, pratica scheggia di sapone, e la pulizia trionfava come mai era accaduto in passato! Oh divina saponetta, qual è sempre stato il tuo segreto? La tua formula chimica rivela il tuo potere di sciogliere le sostanza grasse in ogni processo di pulizia: il sapone è generalmente un sale alcalino di acidi grassi (ovvero per l’esattezza un sale di sodio o di potassio di un acido carbossilico alifatico a lunga catena). A causa di questa sua struttura, la molecola del sapone ha una testa idrofila ionizzata negativamente ed una coda idrofoba. Le code delle molecole di sapone si sciolgono nella massa della sostanza grassa, che viene circondata formando una “micella” (particella colloidale solida formata da molecole particolarmente piccole). Dato che tutte le teste delle molecole di sapone recano una carica negativa, la repulsione elettrostatica impedisce alle micelle di ri-aggregarsi e le mantiene in sospensione nell´acqua. Le molecole di sapone sono pertanto in grado di emulsionare le sostanze grasse, consentendone l’allontanamento con l’acqua. Questo in sintesi, ridotto al suo nudo aspetto chimico, è il cuore di tutti i processi di pulizia.

Sebbene oggigiorno la saponetta sia stata scalzata dal trono di Regina della Pulizia da parte di uno sterminato battaglione di detergenti liquidi e di macchinari tecnologici, oltre che da squadre qualificate per igienizzare tutti gli ambienti sociali, non è esagerato prenderla ad emblema della millenaria battaglia dell’uomo a favore della pulizia. Esistono varie circostanze, ancorché improbabili, che possono aver portato casualmente alla scoperta del sapone, ma è anche possibile che sia avvenuta per via empirica. Probabilmente per prime si ottennero “liscivie alcaline” dalla cenere di legno, che poi vennero usate per la saponificazione di sego, scarti animali, oli vegetali. La prima testimonianza dell’esistenza del sapone risale al 2800 a.C. e proviene da scavi nella zona dell´antica Babilonia dove fu ritrovato un materiale simile al sapone conservato in cilindri d´argilla che recano incise alcune ricette per la preparazione. Una tavoletta Sumera, datata 2200 a.C., descrive un “sapone” composto di acqua, alcali e olio di cassia. Dal papiro di Ebers (ca. 1550 a.C.) si apprende che gli egiziani si lavavano regolarmente con un sapone preparato mescolando grasso animale e oli vegetali con un minerale raccolto nella valle del Nilo e chiamato “Trona”, un’importante sorgente di soda.
I Romani (ed anche i Greci) per i quali il bagno alle terme era un’importante attività sociale oltre che una pratica igienica, non usavano il sapone come detergente, ma la porosa pomice o creta finissima, oppure soda o, ancora, farina di fave; dopo il bagno massaggiavano il corpo con olio di oliva. Eppure il sapone, in area greco-romana, non era sconosciuto: nel II secolo Galeno ne sottolinea l’importanza sia per la prevenzione di alcune malattie che per la pulizia.
Gli Arabi, già nei primi anni dell´Islam creavano saponi molto fini utilizzando grassi vegetali come l’olio di oliva ed essenze aromatiche come l’olio di alloro. Per la saponificazione utilizzarono per primi la soda caustica, metodo che è rimasto sostanzialmente invariato fino ai nostri giorni. Un manoscritto di al-Razi (865-925) contiene ricette per il sapone. Profumati e colorati, i saponi arabi, solidi o liquidi, raggiunsero la Spagna e la Sicilia dopo l’800, sull´onda dell´espansione araba, ed il resto d´Europa dopo la fine delle Crociate.
È da tener presente che probabilmente, nell’antichità, il problema dell’igiene personale non fosse considerato prioritario (non tanto per la scarsità di acqua calda quanto per l’accentuata causticità prodotta sull’epidermide dalla soda impiegata con eccessiva generosità e il lezzo derivante dall’uso di grasso animale, per lo più di ovini); infatti, le prime tecniche di pulizia furono sviluppate per pulire tessuti ed indumenti, generalmente con l’utilizzo di argille (terra da follone), cenere e piante saponarie (da queste ultime si ricavano le saponine che formano soluzioni saponose). Fu solo dopo essere entrati in contatto col mondo vicino-orientale islamico, nell’età delle Crociate, che ci s’impadronì delle tecniche di fabbricazione di un sapone assai meno aggressivo, con l´uso di grassi vegetali, aromi, e sostanze lenitive quali il balsamo. Non a caso il sapone entrò infatti in Europa grazie ai mercanti veneziani e genovesi e, per procacciarselo, dame e gentiluomini cristiani erano disposti a pagare cifre anche molto alte. Grazie alle tecniche arabe, la produzione del sapone si andò affermando soprattutto in Spagna, in Italia e in Francia, aree dove erano disponibili le piante marine dalle cui ceneri si ottiene la soda e l’olio d’oliva: materie prime con le quali si fabbrica un sapone di qualità molto superiore a quello fatto con grasso animale e con soda caustica. L’Italia fu forse la prima a produrre questo tipo di saponi, duri ed adatti all’igiene personale, in particolare a Venezia e a Savona.
Tra il ‘700 e l’800, in piena Rivoluzione Industriale, avvengono dei mutamenti decisivi. Nel 1789 Nicolas Leblanc (1742–1803) scoprì come ottenere dal sale comune, della soda di buona qualità, che da quel momento fu disponibile a basso prezzo ed in grande quantità. Il “procedimento Leblanc” rimarrà in uso fino al 1870, quando verrà soppiantato dal “metodo Solvay” adottato ancora oggi. Nel 1823 il grande chimico francese Michel Eugene Chevreul pubblica “Recherches chimiques sur les corps gras d´origine animale” nel quale spiega la reazione di saponificazione. Queste conoscenze aprono la strada alla produzione di sapone su più ampia scala ed a basso prezzo; di conseguenza attorno alla metà dell’Ottocento si ha un diffuso miglioramento dell’igiene personale, e l’abitudine di fare un bagno diviene comune. Infine, già all’inizio del Novecento, fanno la loro comparsa i primi detergenti sintetici che avrebbero soppiantato il sapone.
Dal punto di vista medico, la nozione di pulizia rientra nell’ambito dell’igiene, sia a livello personale che a livello sociale. Più in generale, l’igiene (in greco indica sano, salutare, curativo; citato nell´invocazione del Giuramento di Ippocrate) è il ramo della medicina che tratta le interazioni tra l’ambiente e la salute umana. Elabora criteri, esigenze, e misure riguardanti lo stato ambientale e il comportamento individuale e collettivo. Suoi scopi sono la prevenzione primaria, grazie alla quale evitare e combattere l’insorgenza delle malattie, e la promozione del benessere e dell’efficienza umana.
Quindi, l’igiene è una disciplina caratterizzata da tre peculiarità:
  1. l’oggetto del proprio interesse non è l’uomo malato, bensì quello “sano”;
  2. l’ambito di intervento non è limitato al singolo individuo bensì esteso all’intera collettività;
  3. la tipologia degli interventi non è limitata all’uomo ma si estende all’ambiente fisico, biologico e sociale nel quale l’uomo si trova inserito.
Come si vede, si è imposta una visione globale e complessa, ben oltre la comune percezione dell’“igiene” come semplice lotta ai “microbi”. Eppure, passi decisivi nel miglioramento generalizzato delle condizioni igieniche sono stati compiuti grazie alle conoscenze che sono state acquisite negli ultimi due secoli intorno alle cause delle infezioni, intese quali premesse per le malattie infettive. I grandi medici dell’antichità, da Ippocrate a Galeno, pur conoscendo l’infezione come entità patologica non ne conoscevano le cause e quindi non ebbero concezione né della disinfezione né dell’asepsi, termine col quale si ricomprende l’insieme delle tecniche e dei metodi usati per sterilizzare il materiale chirurgico. Intuirono che alcune epidemie, oggi note come infettive, potevano essere evitate allontanando le popolazioni dalle città colpite o isolando i malati, e che alcune lesioni come le ferite guarivano meglio se lavate con aceto o vino e bendate con teli puliti, ma non riuscirono a trovare una spiegazione razionale.
Il concetto moderno di infezione nacque nel XIX secolo con gli studi di Louis Pasteur, ma va anche ricordata la straordinaria intuizione di Ignaz Philipp Semmelweis, il medico ungherese che dispose l’obbligo, a tutti i medici e gli studenti che frequentavano il reparto ostetrico, di lavarsi le mani con una soluzione di cloruro di calcio prima di visitare le partorienti: in questo modo riuscì ad ottenere un calo drammatico della percentuale di febbri puerperali che colpiva le donne decimandole.
L’ospedale diventava così il primo ambiente nel quale, grazie alle conoscenze acquisite, si poteva operare per migliorarne le condizioni igieniche. È stata la prima frontiera moderna, se vogliamo, della pulizia e dell’igiene. Successivamente l’inglese Joseph Lister, seguendo le teorie di Pasteur, introdusse l’uso dell´acido fenico nel trattamento delle ferite riducendo significativamente l’incidenza della cancrena che le complicava con esiti mortali. È a questo chirurgo inglese che si deve il termine “antisepsi”, anche se lo stesso assumerà il suo significato corretto di “procedimento atto a ridurre la carica microbica presente in un sito” solo con le scoperte di Robert Koch, il quale qualche anno più tardi riuscì a scoprire e a dimostrare la responsabilità dei microrganismi nelle malattie infettive. Per arrivare alla “asepsi”, e quindi al concetto di sterilizzazione, si dovrà attendere fino all’introduzione nella pratica ospedaliera dell’autoclave costruita nel 1880 ed utilizzata a questo scopo da Ernest von Bergmann nel 1896. Fu proprio alla fine dell´Ottocento che il chirurgo, abituato fino a qualche decennio prima ad operare in condizioni igieniche deplorevoli, iniziò ad utilizzare strutture dedicate esclusivamente alla pratica operatoria e ad indossare indumenti più consoni al suo delicato lavoro.
In pochi anni si diffuse l’uso dei camici, quindi dei cappelli (con Gustave Neuber nel 1883), poi dei guanti (con William Halsted) ed infine delle mascherine (con Johann von Mikulicz), che formando una sorta di barriera tra chirurgo e paziente costituiscono un elemento di protezione in entrambi i sensi.
Seguendo l’esempio di quanto stava accadendo negli ospedali, a poco a poco si sono imposte analoghe misure igieniche a ogni altro ambiente nel quale l’uomo opera: dai luoghi di lavoro, alle abitazioni private, per arrivare agli spazi di più vasta socializzazione o svago. Fra le misure igieniche di prevenzione adottate, efficaci su larga scala, basti ricordare: la cura e il controllo della distribuzione dell´acqua potabile; la costruzione di canalizzazioni; l´organizzazione dello smaltimento di rifiuti; l’istruzione del cittadino sulle misure igieniche fondamentali. Migliorie che hanno fornito, nella loro apparente semplicità, un contributo significativo a far salire la “speranza di vita alla nascita” dell’intera popolazione, indice che è un buon indicatore dell’igiene pubblica.
Siamo partiti da una saponetta e siamo arrivati alla visione globale di igiene vista sopra: il miglioramento duraturo delle condizioni sanitarie di una popolazione, oggi come un tempo, non avviene solamente grazie alla medicina (condizione indispensabile, ma di per sé non sufficiente), ma soprattutto grazie ad interventi su larga scala (e quindi coinvolgendo anche le decisioni politiche) in grado di modificare le abitudini igieniche e dare gli strumenti preventivi adeguati al maggior numero di persone.