L’Analgesia è uno stato in cui non si prova dolore (analgia deriva dal greco anà, “senza”, e algia, “dolore”), ritenuto un’esperienza sia sensoriale che emotiva spiacevole. Il dolore ha però una funzione importante: segnalare un’anomalia nel funzionamento dell’organismo. Quando si cronicizza perde la sua funzione di allarme e diventa dannoso, poiché causa sofferenze da cui scaturiscono rabbia, tristezza e disperazione, oltre a possibili cambiamenti della personalità o insonnia. Oggi esiste un’ampia gamma di farmaci per curare, o almeno sedare il dolore: gli analgesici o antalgici.
Anche l’algologia, ovvero la terapia del dolore, si basa sugli stessi principi, poiché il cardine di questa disciplina è l’approccio terapeutico e scientifico al trattamento del dolore.
L’unica differenza è data dal tipo di medico che può somministrare questa terapia: oltre all’anestesista anche gli altri medici, dal medico di famiglia, al neurologo, chirurgo, possono prendersi cura dei propri pazienti in tal senso.

CENNI STORICI

L’era dell’anestesia e del suo uso risale all’utilizzo del cloroformio, sostanza che permetteva di addormentare il paziente sottoposto ad un intervento chirurgico. Nel 1847 James Young Simpson e Walter Channing pubblicano uno studio sull’uso del dietiletere  durante il travaglio ed il parto. Si tratta di uno studio molto importante per tutta la cultura occidentale e non solo per la medicina. Sempre in quel periodo in un ospedale di Londra viene effettuato un taglio cesareo in anestesia eterea con ottimi risultati sia per la madre che per il nascituro. Nel 1853 John Snow ha anestetizzato la regina Vittoria per la nascita del figlio Leopoldo e 4 anni dopo per la figlia Beatrice.
Da questo momento l’interesse scientifico e pubblico in questo campo dilaga, nel 1885 Corning realizza la prima analgesia epidurale, partendo dall’idea che un liquido iniettato nel canale vertebrale  può essere assorbito e trasportato al midollo spinale bloccando il dolore. Da questo momento in poi assumerà sempre più importanza l’idea che il parto (vista la grande componente emotiva) deve essere vissuto dalle partorienti nel pieno delle proprie capacità fisiche e psichiche per cui la tecnica che più riusciva ad attenuare la componente algica, mantenendo la percezione della contrazione e della necessità di collaborare attivamente alle varie fasi del travaglio e della nascita era l’analgesia spinale con le sue varianti peridurale o epidurale, monodose o continua e subaracnoidea.
Una storia degna di nota è anche quella relativa allo sviluppa della Elettroanalgesia, forma particolare di analgesia che si basa principalmente sulla stimolazione elettrica dei nervi periferici, con lo scopo di impedire la trasmissione del dolore. La prima forma nota di questa tecnica precede persino la nascita della corrente elettrica generata artificialmente. Per ottenere elettroanalgesia nell’antichità si utilizzava la torpedine, un particolare tipo di pesce in grado di produrre forti scariche elettriche. La forma più “moderna” può essere attribuita a Benjamin Franklin grazie alla possibilità di poter utilizzare l’elettricità statica. Un successivo passo in avanti viene fatto con la nascita della batteria elettrica nel 1800.
La maggior semplicità di utilizzo derivata dalla nuova tecnologia che permette di generare corrente elettrica da reazioni chimiche, segna l’introduzione di questa terapia in ambito ospedaliero al Guy’S Hospital di Londra.
Nello stesso periodo in Francia si sviluppa anche un utilizzo diverso, quello dell’agopuntura mediante stimolazione elettrica in alternativa all’uso degli aghi, sempre con finalità analgesica. Questa tecnica diventa rapidamente molto popolare in Europa come in America, e conosce progressive fasi di sviluppo che seguono sostanzialmente quelle del progredire della tecnologia del tempo.
In vari passaggi storici si sviluppano quindi dispositivi sempre più moderni. Il culmine di questo sviluppo tecnologico si raggiunge in tempi recenti con la nascita e lo sviluppo dei semiconduttori, che permettono di realizzare dispositivi sempre più piccoli ed affidabili, alimentati anche da batteria per uso portatile. Il declino di questa tecnica inizia con il progredire dell’industria farmacologica, ed in generale con il progredire della scienza medica, in grado sempre più spesso di rimuovere “a monte” le cause del dolore. Attualmente rimane una quota di utilizzo dell’elettroanalgesia per alcune particolari forme di dolore, generalmente quello cronico, che non rispondono in maniera sufficiente alla sola farmacologia.
Il limite dell’elettroanalgesia è quello di avere progredito efficacemente nel tempo parallelamente allo sviluppo della tecnologia, prima elettrica e poi elettronica. Lo stesso tipo di progresso non si è registrato nella ricerca di base.
Dagli anni 60 in poi si assiste ad una veloce evoluzione sia tecnica che farmacologica dell’analgesia epidurale generale, tanto da facilitarne l’estensione nei paesi anglosassoni, prima e  in tutta l’Europa, successivamente.
Tra le numerose innovazioni avvenute in questi ultimi anni, due sembrano particolarmente degne di nota. Una è l’anestesia messa appunto da Air Liquide: un anestetico a base di Xeno, un gas presente in piccolissima parte nell’aria, con capacità anestetiche. Somministrato in miscela con ossigeno grazie ad un’apposita apparecchiatura, agisce sui recettori cerebrali centrali, inoltre viene eliminato in modo facile e veloce dall’organismo assicurando un recupero celere del paziente.
Dal punto di vista ambientale non ha nessun impatto negativo, in virtù della sua fisiologia.
La seconda innovazione è data dall’utilizzo di farmaci anestetici moderni più sicuri, migliori nel metodo di somministrazione e di costo inferiore. Grazie ai progressi tecnologici, poi, l’utilizzo degli aghi spinali ha dato un nuovo grande sviluppo all’anestesia sub aracnoidea. Questa è diventata una valida alternativa all’anestesia generale, quando questa è sconsigliata a causa della presenza di patologie simultanee. In Italia come in altri paesi europei il numero degli anestesisti che utilizzano questo sistema è in crescita, addirittura del doppio e del triplo rispetto a 20 anni fa.
Gli studi sulle nuove tecnologie relative agli aghi spinali, sulla produzione di farmaci analgesici locali e sull´anestesia sub aracnoidea hanno dimostrato tanto i vantaggi rispetto all’anestesia generale quanto la possibilità di prevenire gli effetti indesiderati.
LE SCUOLE DI FORMAZIONE, UNIVERSITA’ E CORSI DI  AGGIORNAMENTO
L’anestesista-rianimatore è una figura medica specializzata in Anestesia e Rianimazione che opera sia in ambito ospedaliero che extra-ospedaliero.
Tale figura può assumere varie funzioni, accomunate dalla salvaguardia generale della vita del paziente, quando questi si trova in pericolo di vita. Per diventare anestesista-rianimatore è necessario conseguire la laurea in Medicina e Chirurgia, le cui facoltà si trovano in tutta l´Italia:
  • Chieti,
  • L´Aquila,
  • Catanzaro,
  • Napoli,
  • Bologna,
  • Ferrara,
  • Modena e Reggio Emilia,
  • Parma,
  • Trieste,
  • Udine,
  • Roma,
  • Campobasso,
  • Genova,
  • Brescia,
  • Milano,
  • Monza,
  • Pavia,
  • Varese,
  • Torrette di Ancona,
  • Orbassano,
  • Novara,
  • Bari,
  • Foggia,
  • Cagliari,
  • Sassari,
  • Catania,
  • Messina,
  • Palermo,
  • Firenze,
  • Pisa,
  • Siena,
  • Perugia,
  • Padova,
  • Verona.

In seguito alla laurea è necessario ottenere l’abilitazione alla professione. La laurea e l’abilitazione sono i requisiti fondamentali per l’accesso alla scuola di specializzazione in Anestesista-Rianimatore che si trova presso le Università di Cagliari, Genova, Bologna, Torino, Foggia, Milano, Catanzaro, Novara, Verona, Udine, Trieste, Roma, Chieti-Pescara, Pisa, Perugia e Bari. In seguito si possono seguire master e corsi di perfezionamento come quello in Analgesia in Travaglio di Parto presso l´ Università degli Studi di Roma La Sapienza.

PRESENZA IN ITALIA ED EFFICACIA SULLA POPOLAZIONE

In Italia sono presenti più di 10000 anestesisti rianimatori, i maggiori fruitori di questi professionisti e delle tecniche da loro adoperate sono essenzialmente persone sottoposte ad interventi chirurgici e donne durante il travaglio ed il parto. La diffusione dell’analgesia epidurale secondo i dati che sono stati forniti dall’associazione italiana degli anestesisti ostetrici sono circa il 20% contro il 90 % degli Stati Uniti, il 70% in Inghilterra e Francia e il 38% della Spagna.
Le professioni sanitarie connesse all’analgesia sono rappresentate dagli anestesisti: le loro principali responsabilità durante un intervento sono rivolte principalmente alla soppressione del dolore. Molte delle tecniche da loro conosciute vengono impiegate per alleviare anche altri tipi di dolore oltre a quello strettamente legato all’intervento chirurgico, inoltre ci sono per le rispettive competenze i reumatologi, i neurologi, gli ortopedici e i medici che si occupano delle terapie del dolore che non sono solo preparati sulla gestione di tale manifestazione dell’organismo ma anche a diagnosticarne la fonte, attraverso indagini, esami di laboratorio, individuando le cause del fenomeno.
Nella maggior parte dei casi la semplice somministrazione di antidolorifici avviene in fase ambulatoriale, in attesa di indagare l’origine del dolore, eventualità che avviene spesso per pazienti in attesa al pronto soccorso.
Il servizio sanitario nazionale ha avuto l’esigenza di servirsi della farmacoeconomia, una disciplina che studia il rapporto fra costi e benefici e che applicando in campo sanitario tecniche specifiche di analisi economica, consente di distribuire nel modo più razionale e conveniente le risorse disponibili. Questo perché spesso le risorse economiche non sono sufficientemente adeguate al costo di terapie farmacologiche, le quali, a loro volta,  sono dispendiose e non sempre rispondenti a vantaggi oggettivi sulla salute del malato.
Attraverso il confronto fra vari trattamenti farmacologici alternativi, è possibile identificare  quello che presenta il miglior rapporto costo-beneficio in relazione all’efficacia. I parametri di cui si avvale la farmacoeconomia sono essenzialmente quattro: l’efficacia (benefici indotti dalla cura farmacologia al paziente); la tollerabilità (valutazione degli eventuali effetti collaterali); l’utilità (gradimento da parte del paziente anche in relazione alle modifiche indotte sulla qualità della vita) e il costo (diretto o indiretto), ovvero il consumo di risorse in rapporto ai benefici derivanti dal trattamento.

TRATTATO DESCRITTIVO

Il dolore rende spesso il soggetto inabile sia da un punto di vista fisico che emotivo.
Se il dolore acuto relativo ad un trauma è spesso reversibile naturalmente. Il dolore cronico, invece, generalmente è causato da condizioni solitamente difficili da trattare. Talvolta i neurotrasmettitori continuano ad inviare la sensazione del dolore anche quando la causa scatenante non esiste più; per esempio un paziente a cui è stato amputato un arto può provare dolore riferito all’arto che non c´è più (sindrome dell’arto fantasma).
Il trattamento con mezzi farmacologici è composto principalmente da analgesici non oppiacei, oppiacei, antidepressivi triciclici, anticonvulsivanti e misure non farmacologiche, come esercizio fisico, applicazione di freddo o calore.

Terapia del dolore

La terapia analgesica viene abitualmente applicata in vari contesti, da quello oncologico, a quello post-chirurgico, traumatologico, neurologico (in particolare cefalee, nevralgie…), a contesti con minor gravità, ma altrettanto invalidanti: come l´ortopedico/reumatologico, odontoiatrico e molti altri. La terapia del dolore è spesso utilizzata soprattutto durante le ultime fasi di una malattia terminale.
I progressi della medicina moderna hanno reso disponibili vari farmaci e trattamenti per curare e sedare il dolore. Il livello di dolore varia da persona a persona e da malattia a malattia per cui il trattamento relativo sarà studiato in base alle necessità specifiche del paziente.
Per meglio rispondere alle esigenze individuali il trattamento può includere un unico antidolorifico o una combinazione di medicazioni e di metodi differenti. Gran parte dei pazienti che si rivolge alle Unità di terapia del dolore hanno già sperimentato altre terapie.
I problemi comunemente trattati includono il dolore postoperatorio, il dolore da parto, la lombalgia, il dolore da cancro, le nevralgie, il mal di testa e le artriti. La maggior parte delle condizioni dolorose possono essere diagnosticate e trattate con successo dal medico di famiglia. Se il dolore persiste e non migliora con la cura è opportuno consultare uno specialista in terapia del dolore.
I  medici che si occupano di terapia del dolore sono storicamente gli anestesisti. La terapia del dolore negli ultimi anni, a fatica (soprattutto in Italia), tende a divenire una pratica collettiva di tutti i medici (dal medico di famiglia, al neurologo, chirurgo…), anche se nei fatti molta strada è ancora da percorrere. Questo ritardo a volte veniva attribuito alla “cultura cattolica che vedrebbe il dolore come forma di espiazione. Pur riconoscendo che ciò possa essere accaduto presso qualche associazione religiosa (sebbene ciò contraddica la storia delle invenzioni cattoliche per soccorrere l´uomo sofferente), la posizione ufficiale della Chiesa Cattolica è desumibile in modo inequivocabile da un documento di Pio XII agli anestesisti del 24 febbraio del 1957: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo di narcotici (quando è richiesta da una indicazione medica) è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente”.
Di recente (15 marzo 2010) il Parlamento italiano ha licenziato una legge in cui si afferma il diritto alla cura del dolore per ogni individuo indipendentemente dalla malattia e dall’età.
In Italia esistono dei centri specializzati a cui rivolgersi, gestiti da professionisti del settore,  conosciuti come Centri di Terapia Antalgica ospedalieri.

Farmaci analgesici

Si definiscono farmaci analgesici o antalgici quei medicinali che intervengono sul dolore alleviandolo, senza però intervenire sulla sua origine.
I principali farmaci analgesici periferici sono il paracetamolo (antipiretico, cioè volto ad abbassare la febbre e con scarso potere antinfiammatorio); i FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei, impiegati soprattutto come antinfiammatori generici); gli antidolorifici oppioidi (tra i più potenti farmaci antidolorifici esistenti); gli anticonvulsivanti (particolarmente usati nella sedazione delle convulsioni dovute a crisi epilettiche); antidepressivi triciclici  che interagiscono con recettori neurotrasmettitori, intervenendo sulla percezione del dolore; e altri farmaci come i cannabinoidi.

Farmaci oppiacei

Comunemente si ritiene che i farmaci oppiacei necessitino di un aumento dei dosaggi, man mano che si prolunga il tempo di somministrazione e che si sviluppi una dipendenza fisica e psichica, responsabile dell’assunzione prolungata del farmaco oppiaceo.
Pur essendo fenomeni noti e studiati, questi effetti si realizzano dopo svariati mesi e soprattutto con una intensità minima. Senza dimenticare che nella pratica clinica, la presenza latente della dipendenza non è un fenomeno determinante per i pazienti affetti da dolore.
Qualsiasi testo di algologia riporta che la tolleranza e la dipendenza da oppiacei è molto limitata. La famosa necessità di aumentare le dosi, (nel setting della terapia del dolore con oppiacei) è un fenomeno clinicamente falso. Altrettanto difficile, anche se non impossibile, è provocare la morte per overdose con i farmaci oppiacei, nel caso di un’assunzione accidentale eccessiva.
La finestra terapeutica, per lo meno negli adulti, per gli oppiacei è ben più ampia di molti farmaci usati normalmente nelle terapie (ad esempio gli antiaritmici) e i farmaci cardiocinetici.

Partoanalgesia

L’analgesia durante il parto ha lo scopo di ridurre il dolore del travaglio. Ciò produce una migliore ventilazione materna e quindi una migliore ossigenazione fetale.
L’analgesia epidurale si effettua introducendo farmaci nella zona della colonna vertebrale.
Prima di sottoporsi ad anestesia o analgesia epidurale la paziente deve essere visitata dall’anestesista, che valuta le condizioni cliniche e dà l’autorizzazione alla procedura.
Al momento della visita la paziente deve essere in possesso di esami del sangue recenti (non anteriori a un mese), comprendenti emocromo, coagulazione completa ed elettrocardiogramma, infine la donna dovrà firmare un consenso informato che autorizza all´esecuzione della procedura. All’inizio del travaglio, la partoriente viene stesa su un fianco o si mette seduta. Viene incannulata una vena periferica, si misura la pressione arteriosa del sangue e si disinfetta la cute della parte inferiore della schiena.
L’anestesista inietta poi l’anestetico locale nella cute e nel sottocute. Da questo momento la paziente potrà avvertire una sensazione di leggera pressione dovuta all’introduzione dell’ago da peridurale.
Una volta raggiunto lo spazio peridurale, si introduce, attraverso l’ago, un tubicino (catetere) che verrà lasciato fino all’espletamento del parto. Durante queste manovre, la paziente potrà avvertire una piccola e transitoria scossa. Quando in tubicino è posizionato correttamente, l’ago viene rimosso mentre una medicazione sterile manterrà il tubicino nella giusta posizione, mentre la paziente sarà libera di muoversi. Questo catetere peridurale sarà utilizzato per iniettare in momenti diversi i farmaci necessari per controllare il dolore durante il travaglio.
L´iniezione non è dolorosa. L´effetto sul dolore si manifesta dopo circa 20 minuti. L’anestesia epidurale toglie il dolore della contrazione, pur permettendo alla paziente di collaborare attivamente con le spinte nel periodo espulsivo del parto. Tra i vantaggi si può citare il fatto che la paziente rimane sveglia e rilassata per tutta la durata del travaglio, così da poter apprezzare appieno l’esperienza del parto; inoltre in caso di necessità di ricorrere ad un parto strumentale (ventosa) o ad un taglio cesareo, è sufficiente rifornire il catetere già inserito per garantire l’anestesia.
Da ultimo, ma non meno importante, durante il parto spontaneo in analgesia epidurale non si corre il rischio di far nascere un bambino poco vivace o assonnato. La partoanalgesia ha compiuto già 50 anni di vita e ciò la rende decisamente sicura. Sarebbe bene comunque conoscere anche gli eventuali svantaggi, sebbene si manifestino in una minima percentuale di casi, come ematoma, parestesia e cefalea, alcune volte, poi, la paziente potrebbe sentire dolore da una parte del corpo, mentre l’altra è anestetizzata, in tal caso è necessario informare immediatamente il medico o l´ostetrica, così che possano intervenire tempestivamente.

Neuroleptoanalgesia

Con questo termine si definisce un tipo di anestesia non generale eseguita iniettando farmaci ad attività analgesica in sede locale e farmaci ad attività sedativa e analgesica per via sistemica, generalmente endovenosa. Così facendo il paziente è indifferente al dolore ed agli stimoli esterni mantenendo però, almeno in parte, la capacità di collaborare. Ciò avviene perché attraverso l’uso combinato di un farmaco neurolettico e uno oppiaceo si può assicurare una buona analgesia, che pur riducendo la vigilanza ed il contatto con l’ambiente circostante (sedazione), non abolisce lo stato di coscienza.
È una tecnica sempre più frequentemente utilizzata negli interventi chirurgici ambulatoriali o eseguibili in regime di day surgery o di day hospital chirurgico. Rientrano in questa tipologia di interventi molta chirurgia dermatologica ed estetica, interventi di tipo endoscopico, chirurgia minore di superficie. Quando applicabile, questo approccio anestesiologico include vantaggi sia per il medico che per il paziente.
Il medico infatti può contare su un paziente collaborante e sufficientemente vigile da semplificare l’esecuzione di alcune procedure, mentre il paziente associa al semplice effetto analgesico proprio dell’anestesia locale anche quel minimo di “astrazione” dall’ambiente operatorio e dalla situazione stressante propria dell’intervento che è tipico della sedazione farmacologica più o meno accentuata. Vengono generalmente utilizzati dall’anestesista farmaci ad emivita molto breve, in modo che gli effetti siano velocemente metabolizzati e il paziente possa recuperare la propria piena consapevolezza già pochi minuti dopo la procedura. Tale impiego farmacologico, insieme a tutta una serie di altre procedure e precauzioni, rende frequentemente possibile la rapida dimissione del paziente con il suo ritorno a casa già poche ore dopo l’esecuzione dell’intervento.
Nei casi in cui si rendesse necessaria l’aggiunta del protossido d’azoto, somministrato a percentuali, si verificherebbe una completa perdita della coscienza; in tal caso però si dovrebbe parlare di Neuroleptoanestesia.

Le cure palliative

Le cure palliative secondo la legge n.38 del 15 marzo 2010 riguardo alle “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” sono definite come  un insieme di interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali rivolti tanto al malato (definito come persona affetta da una patologia ad andamento cronico ed evolutivo, per la cui cura non esistono terapie, o se esistono non sono adatte) quanto al suo nucleo familiare, con il fine di curare una malattia dall´evoluzione inarrestabile e che non risponde alle terapie tradizionali.
Per quanto riguarda l’assistenza si parla sia di quella “residenziale” (interventi sanitari, socio-sanitari e assistenziali forniti da uno staff multidisciplinare in una struttura idonea), che di quella “domiciliare” (direttamente presso il domicilio della persona malata), che in forma di Day-Hospice, ossia la somministrazione di cure diurne presso una struttura ospitante poiché non eseguibili a domicilio.
Quando il malato terminale, spesso oncologico ma non solo, ha già sperimentato tutte le cure possibili, senza ottenere i risultati sperati, è indispensabile ricorrere alle cure palliative, con l’unico fine di non far patire al paziente sofferenze inutili. Non a caso il termine palliativo (dal latino pallium, velo) indica già nella sua etimologia “ricoprire con un velo”, e dunque in questo caso indica calmare i sintomi più gravi, dare sollievo, e dunque coprire la parte più terribile della malattia.
In virtù della loro importanza le cure palliative e la terapia del dolore vengono contemplate nel Piano sanitario nazionale. Per maggiori informazioni è possibile rivolgersi alla SICP (Società Italiana di cure palliative Onlus).